Il 30 Aprile 1867 papà Angelo e mamma Carmela Mazzone ebbero la gioia della nascita di Vito. Unico di 5 figli a dimostrare precoce attitudine allo studio. Sin da ragazzo di carattere mite e riflessivo, il 10 Gennaio del 1894 si laureò in medicina e chirurgia presso l’Università di Napoli. Dopo un periodo di praticantato presso ospedali della città partenopea, conseguì la Condotta Medica per Garaguso, Oliveto e Calciano. Condotta che durò ininterrottamente per oltre 42 anni.
Attrezzò due stanze al secondo piano ad uso ambulatoriale e farmaceutico. A quei tempi le uniche farmacie erano allocate in S. Mauro, Grassano e Tricarico. Pur appartenendo a famiglia benestante, trasse il suo modesto guadagno più dalla propria attività di medico che da rendite fondiarie.
Si dimostrava poco incline agli interessi terrieri, accontentandosi di quel tanto che coloni e mezzadri gli portavano a compenso, senza mai esigere sul dovuto pattuito. Di animo aperto e cordiale, dimostrava tolleranza anche quando le circostanze imponevano un suo diritto a chiedere. Era l’uomo del buon senso, qualità da tutti riconosciuta. Quando tra famiglie accadevano liti, divergenze, o semplicemente per il bisogno di un consiglio di un parere risolutore, si diceva: "allor sciamm sopp u palazz, v’dimm ce dic don V’tuzz".
Amava molto la musica al punto da istituire, a sue spese, la prima banda di Garaguso.
Per motivi professionali si recava spesso a Napoli e Potenza e ne approfittava per l’acquisto di strumenti musicali che alcuni compaesani, componenti bandistici, non potevano permettersi. Trasformò al piano terra del palazzo un locale in sala musicale, aperta specie nei mesi invernali. A seguito della prima guerra mondiale, per forza di cose la banda fu sciolta.
Garaguso diede alla Patria undici dei suoi figli. Inoltre il paese fu indirettamente coinvolto nelle vicende della grande guerra: accadde che il Governo inviò a Garaguso alcuni giovani prigionieri austriaci che furono ricoverati nei locali, con accesso dal cortile al piano terra del palazzo, e sorvegliati dai Carabinieri ospitati al primo piano dello stabile.
Il dottor Moles fu incaricato di curare la salute di questi giovani nemici non più in grado di nuocere. Accadeva che alcuni compaesani avessero bisogno di manodopera in campagna o nella ristrutturazione di qualche casa in paese, si rivolgevano allora ai Carabinieri per avere la disponibilità di qualche prigioniero. Questi accettavano di buongrado dando una mano a chi ne avesse avuto bisogno. Prestando la loro manodopera, contraccambiavano l’ospitalità dell’intero paese.
Garaguso, avendo contemporaneamente dei figli in guerra, dimostrò alto senso civico e di tolleranza, nei rapporti con i prigionieri, che spesso, venivano visti rientrare con fagotti di provviste. In quei tempi si ascoltava una frase, quasi un intercalare, pronunziato da alcune donne di Garaguso con espressione di pietà e compassione.
Una frase che poi non si è mai più sentita: “so’ tutt figh’d’ mamm” (sono tutti figli di mamma).
Alcuni anni prima, il papà Angelo volle fare dono al paese di un piccolo appezzamento di terreno che chiude la piazza, ove poi fu impiantato il primo manufatto di villa comunale. Tra il 1885 e il 1887, Sindaco il giovane Antonio Baione, si pensò di abbellire la piazza con una bella fontana. Fu costituita una commissione tra i possidenti del paese, questi oltre ad auto-tassarsi, ognuno per quel che poteva, procurarono fondi presso enti locali di Potenza e presso l’acquedotto dell’Agri.
Fu contattata una ditta artigianale di fonderia sita nel circondario di Napoli e dopo lunghi confronti e pareri vi fu la scelta definitiva. Prese così corpo una fontana monumentale dedicata alla Dea Cerere, divinità mitologica, protettrice delle messi, unica fonte di acqua fresca e potabile di cui disponesse il paese. Massaie e contadine, non conoscendo le origini della raffigurazione statutaria, trovandola comunque piacente e gradita, molto confidenzialmente ed affettuosamente, quasi fosse una di loro, la ribattezzarono “Maria Caitan”.
Col passare degli anni, si pensò che un così bel monumento andava circoscritto, per meglio esaltarlo e proteggere le basse e circolari gradinate in granito dai pestaggi di muli e cavalli. Su iniziativa del dottor Moles, del giovane arciprete Garruti e di altri, furono fatte pressioni sull’ente acquedotto dell’Agri che provvide a proteggere la fontana, facendo costruire intorno una ringhiera a due file di tubi circolari ancorati ad intervalli a colonnine cilindriche a base quadrata pure in granito. Fu lasciata una sola apertura verso Corso Vittorio Emanuele.
Le donne, munite di "varricchi", (sorta di recipiente a fasciame di legno di forma ovoidale allungata e tronca alle estremità) e di grossi “cùcumi” di creta portati abilmente sulla testa con un sensibile giuoco a bilanciere del collo, con le mani libere, ma spesso contemporaneamente a sferruzzare calze di lana, andavano ad attendere il loro turno per rifornirsi di acqua. Al tramonto, alle donne si univano i mulattieri ed i contadini, con i loro muli muniti di due "varricchi" legati con funi e catene ai lati opposti del “masto” (sella).
La fontana era il luogo fisso ed insospettabile di incontri, a volte casuali, a volte concordati, e così si intrecciavano apprezzamenti, pettegolezzi coloriti, sottili allusioni, giusto il tempo che i recipienti si riempissero sotto lo scrosciare delle due fontanelle. Chissà “Maria Caitan” quante ne avrà sentite dire e quanti amori avrà visto nascere.
Il 20 febbraio 1916 il dottor Moles viene nominato Cavaliere del Regno, il 21 Aprile del 1921 all’età di 54 anni, riceve dall’allora sottosegretario di Stato On. Italo Corradini. a mezzo telegramma, l’avvenuta nomina a Grande Ufficiale della Corona d’Italia. Tali riconoscimenti gli giunsero in virtù della sua abnegazione e professionalità di medico, che egli considerava piuttosto una missione prima che professione.
Cattolico, volle far dono alla Parrocchia di un bel calice d’argento tuttora conservato. In casa curava la cappella di famiglia ed a sera riuniva i componenti in brevi preghiere. Padre di 6 figli, donò al Comune un pezzo di terra confinante con la Piazza, il muro del suo giardino e la sottostante rotabile. Tale appezzamento fu, più tardi, adibito al cosiddetto orto di guerra. Vi si coltivavano ortaggi e lattuga venduti a prezzo modico mentre parte dei prodotti venivano donati ai meno abbienti. Sul medesimo suolo fu successivamente eretto l’edificio scolastico.
In un articolo del Popolo di Roma del 27 Febbraio 1935 a pagina 6 il giornalista Adolfo Brettagna definiva Garaguso: Oasi di pace, abitato da gente buona, laboriosa, mite, che nel lavoro dei campi trae conforto per la sua vita sobria.
Il dottor Moles soleva dire d’istinto si tende a rispettare coloro che hanno avuto la possibilità di studiare o che hanno denaro, ma questi poco sanno dei lavori dei campi, non sanno fare il calzolaio, il muratore o il fabbro. Ma è anche vero, per questi ultimi, il non sapere cose di chi ha studiato, allora tutto reciprocamente si ricompensa. Di qui l’obbligo del rispetto e della considerazione che tutti devono a tutti.
Nella diuturna arte medica seppe dimostrare tutta la disponibilità e comprensione verso chi soffriva e non disponeva di mezzi per curarsi. A quei tempi erano in tanti. Chiamato spesso al capezzale di malati affetti da bronchiti, polmoniti, o infezioni gravi, si avvedeva che i poveretti non avevano abbastanza maglie di ricambio e coperte per sudare. Tornato a casa, dava subito disposizioni alla domestica di portare, agli ammalati, maglie felpate e coperte rimosse dal suo armadio. In un’altra occasione, terminata la visita, fu visto porre sulla sedia impagliata, che fungeva da comodino, affianco alletto alto di materasso ripieno di foglie di granturco, alcuni centesimi perché la povera donna potesse comprare i medicinali che egli non aveva momentaneamente disponibili.
Un pomeriggio d’inverno, si tolse il suo pastrano e lo depose sul letto del sofferente a mo’ di coperta aggiunta. Guarito, il paziente si premurò di restituirlo ma egli non lo rivolle indietro, forse pensò al successivo inverno che avrebbe affrontato il poveretto.
Questo suo modo d’intendere i rapporti con il prossimo gli valsero la stima e l’affetto dei compaesani che semplicemente lo appellavano “Don Vituzzo”.
Si potrebbe pensare che per un uomo benestante, quale egli era, non costava molto fare opere di bene e di solidarietà, ma viene da chiedersi: Quanti ricchi di quel tempo hanno fatto altrettanto? Sicuramente pochi. L’Ottocento e gli inizi del Novecento sono stati caratterizzati dalla ingordigia, dallo strapotere e dalla smania di possesso delle classi abbienti. Questo era il contesto ed il clima di allora. Non si tratta di discernimenti mentali dovuti ad orientamenti politici, ma più semplicemente, di virtù personali, quale il senso della solidarietà a cui pochi erano abituati.
Ma qual era la sua tendenza politica? Che si sappia, non ha mai preso aperta posizione. Dal suo atteggiamento generale, dal modo di agire e di intendere alcuni punti di vista, da come a volte esprimeva i suoi pensieri, si può supporre che fosse un liberale farcito di idee giolittiane.
Ma senz’altro un moderato, che odiava la violenza. Sicuramente un altruista che vedeva l’uomo sempre sotto l’aspetto positivo. Il sagace quanto poliedrico mastro Rocco Pandolfo, che per amicizia spesso si recava in casa Moles, a suo tempo ebbe più volte a riferire una frase detta dal dottor Moles: “la guerra è il segno di una grande malattia del genere umano la cui unica medicina è la solidarietà”. Ed ancora: "i libri di storia? Solo storie di guerra!". Se quanto riferito dal Pandolfo, che peraltro si caratterizzava dall’avere una memoria di ferro, è stato vero e non vi è motivo di dubitare, vista la schiettezza del referente, ecco il dottor Moles apparirci come uomo di pace esprimente un concetto di vita che, proprio in questi anni ci appare attualissimo.
Di carattere equilibrato e mite, sempre ottimista e pronto al sorriso, tendeva a minimizzare e risolvere ogni questione che fosse di natura affettiva o di interessi. Soleva ancora dire: "dove abita il buon senso non entra la legge". Siamo appena nel Duemila e ritorna la paura di una guerra biologica con la minaccia di contaminazioni ancestrali quali: antrace, vaiolo, dissenteria, e chissà cos’altro ancora. Medico e farmacista, il suo studio era zeppo di boccali di vetro, bevute, serpentine, scatole ripiene di elementi e sostanze che, da lui saggiamente dosati sul bilancino, traeva di volta in volta, a seconda dei casi, miscelandoli e componendo farmaci specifici. Molti medicinali, da lui preventivamente composti a mo’ di polverine o granulari, venivano raccolte in pozioni di grammi in minuscole cartine, ben ripiegate e chiuse, pronte così alla prescrizione.
Tra i vari attrezzi, figurava perfino un apparecchio per l’elettro-terapia. Orbene, agli inizi degli anni Quaranta, Garaguso ed Oliveto furono sede di alcuni episodi di carbonchio da contagio animale. Alcuni contadini avevano contratto l’infezione non polmonare ma epidermica. Si sa che l’era della penicillina e degli antibiotici doveva ancora farsi attendere per molto.
Il dottor Moles, in attesa che arrivasse un qualche siero, da lui prontamente ordinato ma che tardava ad arrivare, con l’ausilio di pochi strumenti e di componenti medicamentosi chimici e sulfarnidici, che a stento riusciva a procurarsi da Potenza e da Napoli, volle sperimentare su pazienti infetti una procedura ed un farmaco da lui stesso messi a punto.
Egli caustificava la pustola e la trattava con una miscela contenente parte di vetriolo polverizzato diluito con altra sostanza. Ricopriva poi le parti, con una pomata di cui si conosce solo il colore marrone scuro, prescrivendo l’ingestione di altro componente. Purtroppo non è dato sapere di più. Certo si sa che il medico di Oliveto inviava i suoi pazienti dal dottor Moles. Sta di fatto, che nessun decesso fu attribuito al carbonchio e sue complicanze.
Nella lotta all’infezione, parte del merito la si deve anche ad un valido veterinario il cui nome purtroppo rimane sconosciuto. Nel giro di qualche mese, l’infezione fu circoscritta e debellata. Per le scarse garanzie igieniche dell’epoca, per la poca disponibilità di acqua nelle case, si manifestò una seconda infezione cutanea di altra natura che si conclamava in vistosi arrossamenti, intensi pruriti su tutto il corpo con febbre altissima. Detta infezione fu chiamata "resìpela". Il dottor Moles ancora una volta, calibrando le sue misture farmaceutiche riuscì a ridurre questa seconda fase infettiva rendendo edotti sulla procedura tutti i colleghi dei diversi paesi vicini.
Negli interventi ambulatoriali, veniva spesso collaborato da un suo nipote: Angelo Moles, papà dell’insegnante Rina, che, essendo stato da giovane negli Stati Uniti ivi apprese l’arte infermieristica. Uomo versatile per molti anni espletò il compito di unico e prezioso elettricista in Garaguso.
Due aneddoti, serviranno per capire meglio l’indole del dottor Vito Moles: allorquando suo figlio Pancrazio giunse da Caserta con la giovane sposa Maria volle di sua caparbia iniziativa ritirarsi a vivere in sole due stanze del Palazzo. Nella prima conduceva l’ambulatorio e la farmacia, nell’altra, spartanamente adorna, vi era la sua camera da letto. Volle così mettere a disposizione degli sposi l’intero palazzo, accorto ad evitare ogni indiscrezionalità.
L’altro aneddoto riguarda i suoi compaesani. Quando Garaguso era interessato da pomeriggi piovosi e freddi, in casa Moles si brontolava per l mvasione di fumo dì trinciato e Alfa che, salendo dal portone e lungo le scale, giungeva sino in casa: "Oggi piove Governo ladro".
"No": "oggi piove Governo ladro e qui non si respira". Parafrasando, questo era l’intercalare ricorrente in famiglia. Ma cosa ha a che fare la pioggia con il lezzo del fumo? Il buon don Vituzzo, incurante delle critiche dei familiari, alle prime gocce di pioggia faceva aprire l’intero portale di ingresso, così facendo dava rifugio ai passanti che di buon grado si fermavano a chiacchierare. Quelli che stavano in casa con disappunto delle mogli uscivano di casa sotto la pioggia per andarsi a riparare e a discorrere nel portone Moles.
L’intera combriccola così riunita, a mo’ di circolo paesano (non vi erano ancora i bar ad eccezione di due cantine), tra una boccata e l’altra di pipa, sigaro o Alfa, che spesso andava da una bocca all’altra, iniziava accanite discussioni, gli argomenti erano sempre gli stessi: episodi vissuti nella grande Guerra, considerazioni ed opinioni su quella in corso. I ragazzini si fermavano ad ascoltare per poi andar via non appena puntualmente si parlava di maggesi, potature, termini di confine, ed azzardate quanto improbabili previsioni sul raccolto a venire.
Così i compaesani passavano le ore fino a sera. Vi era però un termine massimo di ospitalità: verso le ore venti il portone veniva inesorabilmente richiuso ed i "soci del circolo", che piovesse o no, si disperdevano pensando al lavoro dell’indomani, che, certo, avrebbe portato argomenti di discussione per la riunione della serata a venire. Si riaprivano le finestre del vano scale e, dopo un pò, la famiglia ritornava a ben respirare.
Durante la Guerra, benché Garaguso non ne fosse stato coinvolto, alcuni paesani nutrivano giustificate paure, prima dei tedeschi, poi degli alleati, che con lunghe colonne di autocarri passavano lungo la rotabile per altre destinazioni. Dicevo, paure di requisizioni, per,le scarse riserve che avevano ricavato dai terreni. Orbene, prima che ciò potesse accadere, alcuni compaesani, chiesero di poter nascondere quintali di grano e persino vino ed olio nel palazzo Moles. Fu così che le camere d’aria o diaframmi posti tra una volta e l’altra dei solai furono riempiti di dette provviste, mentre l’accesso dal pavimento del piano superiore veniva accuratamente sigillato da mattonelle del pavimento e poi sormontato da mobili. L’aria proveniva da strette fessure poste sui muri perimetrali.
Cessato il pericolo, dopo un anno o poco più, a tarda sera sembrava che il palazzo venisse furtivamente svaligiato. Erano i proprietari delle riposte masserizie che, quasi di soppiatto, venivano a riprendersi i loro "depositi" stando attenti a non dare troppo nell’occhio. Per fortuna di Garaguso e dei suoi compaesani questi accorgimenti si rivelarono poi completamente inutili.
Vi racconto ora un episodio, tra. il bizzarro ed il comico, che il compianto Totò non avrebbe saputo interpretare così bene: siamo nell’estate del 1944, allorquando, nel primo pomeriggio assolato, nel cielo di Garaguso ebbero a scontrarsi un caccia alleato contro uno tedesco. Il duello aereo durò pochi minuti, mentre, in quello stesso momento, Pancrazio stava sdraiato sul largo muro di contenimento della vasca per irrigazione dell’orto, ora occupato da case, orto posto al di là della strada statale di fronte all’abbeveratoio. Era lì che si godeva il sole, quando si avvide dello scontro aereo quasi sulla sua verticale. Si volse e si rivolse a guardare in alto, un po’ incuriosito, un po’ impaurito, perché i due aerei si scambiarono colpi di mitragliatrici ben udibili da terra.
In quel frangente, caso volle che il di dietro del suo pantalone prese fuoco. "Oddio, mi hanno colpito, sono ferito", gridava colpendosi il lato bruciacchiato del pantalone, tutto agitato ed impaurito, imprecando la malasorte continuava "proprio a me, proprio a me doveva capitare", mentre a larghe falcate raggiungeva la sua vicina abitazione, chiamando in aiuto il papà medico giù dal portone e lungo le scale. "Che cosa è successo?" domandò al figlio il buon don Vituzzo, "mi hanno mitragliato!" fu la risposta del figlio.
Figuratevi la paura e l’impressione che suscitò tale frase. Ma tutto si dissolse quando il medico, fatte calare le brache al figlio e visto il presunto punto del proiettile d’improvviso proruppe in una lunga e fragorosa risata che sembrava non avere fine. Gli altri familiari accorsi, lì per lì, non capirono il motivo di tanto divertimento da parte del medico. Pancrazio ancor più adirato e costernato, non si rendeva capace di come suo padre potesse ridere nel guardare la ferita che forse, pensava, lo avrebbe reso invalido per sempre! Ma, altro che mitragliamento. Era semplicemente accaduto, per una beffa del caso, che, nel preciso momento dello scontro aereo, forse per lo strofinio del pantalone sul muro, forse per autocombustione, i fiammiferi, riposti nella tasca posteriore presero spontaneamente fuoco. Una bella pomata e la giovialità del padre posero fine al grottesco episodio.
Don Vituzzo, nel tempo libero, lo si vedeva poche volte passeggiare. Aveva un hobby: l’arte culinaria. Una vera passione che lo vedeva impegnato tra pentole e tegami. Inventava e trascriveva moltissime ricette riguardanti i dolciumi ed i vari modi di cucinare la pasta, la carne, il pesce e la selvaggina. Ha tramandato un vero ricettario tuttora conservato in famiglia. Amava intrattenere ospiti, compiacendosi di servire le sue specialità. Quando cucinava, lo faceva senza parsimonia, spesso capitavano ospiti inattesi, ma la riserva era pronta per rifocillarli. Tempi magri per molti compaesani, alcune povere vecchiette del paese, poco dopo l’ora di pranzo, salivano sul palazzo, sapevano che anche per loro il dottor Moles aveva qualcosa da parte. Quando ciò non avveniva, per il cattivo tempo o per malattia, era lui stesso che inviava il cibo a casa delle poverette.
Garaguso è stato spesso scelto quale sede coatta di confinati politici. Essi provenivano da Regioni belle e lontane come la Liguria e la Toscana. Giungere a Garaguso, paesino sperduto, costituiva un vero trauma. Ma presto il loro forzato soggiorno veniva alleviato dall’ospitalità, dalla cordiale disponibilità, di molti abitanti del paese. Anche in queste occasioni il dottor Moles non volle essere da meno, istituendo la regola dell’invito a pranzo o a cena in occasione di festività.
Uno per tutti: qualche anziano ricorderà il dottoe Frediani, bella figura di toscano, colto e disponibile, dall’aspetto alto e magro, pantalone alla zuava, occhiali di osso e perenne impermeabile nocciola chiaro. Dispensava consigli oculati ed amava istruire i ragazzi. Lasciò il paese con rimpianto e riconoscenza. Ancora qualche nome: il dottor Maurizio Bolongalo di Stresa, che nel 1937 volle dedicare con sottile ironia, una gustosa filastrocca ai Garagusani.
Il dottoe Moles da alcuni mesi divenne sofferente. Già prestava servizio un nuovo medico condotto, ma egli, confinato in due stanze, continuava a curare chi lo richiedeva e fu così fino a pochi mesi prima della fine. Fine che seppe prevedere nel giorno e quasi nell’ora. Approssimandosi il momento, la mattina di quel giorno, volle vicino parenti ed amici. Mandò a chiamare alcune persone, verso le quali pensava di aver arrecato un qualche involontario torto. La stanza era piena di gente ansiosa e commossa. A tutti volle chiedere perdono, persino al suo nipotino di nove anni per qualche bonario scappellotto datogli. Nel primo pomeriggio, serenamente si spense. Era il 6 Aprile del 1946. Il dottor Moles aveva 79 anni. Visse per la gente ed i suoi compaesani insieme ad altri non lo dimenticarono.
La notizia si sparse rapida per Oliveto, Calciano, Grassano e Potenza, ai suoi funerali, modesti come egli avrebbe voluto, intervenne l’intero paese e molti dalle campagne e volti sconosciuti dai paesi vicini. A turno vollero portare il feretro a spalla fino al Cimitero, pur essendo a disposizione un furgone verde della Croce Rossa inviato da Potenza. Don Vituzzo Moles ancora vive nella mente di alcuni anziani del paese, allora giovani, gente buona e modesta come lui, perché solo di questo lui si sarebbe sentito pienamente appagato.
Testo tratto dal volume: Un Medico nel Palazzo di Vito Umberto Moles